L'altare della Reposizione del Cristo Eucarestia nella Cappella Palatina


Nella parete occidentale delle chiese con abside rivolta ad Oriente è la porta principale che simboleggia Cristo, unica porta attraverso la quale si giunge al Padre. Nella Cappella Palatina, che ha asse est-nord-est (in corrispondenza del punto di levata del sole nel solstizio d’estate) ovest sud-ovest (in riscontro con il punto di tramonto del sole nel solstizio d’inverno quando, tramontata la luce fisica, inizia la Luce vera, cioè Cristo Signore e principia l’allungamento delle giornate nel Dies Natalis), al suo posto è collocato il cosiddetto soglio regio ove, da qualche anno, si allestisce l’altare della reposizione. In varie chiese medioevali d’oltralpe, in tal luogo era allocato un sepolcro (sovente d’un santo) per quel complesso rimando tra la morte, fine dell’esistenza terrena e la vita eterna nella Gerusalemme celeste cui giungere solo passando attraverso l’unica Janua Coeli che è Cristo Signore.

Nel tabernacolo-repositorio (da riposto, custodito) è Cristo Eucaristia, donatosi all’Umanità nell’Ultima Cena, sotto la sola specie del pane, conservato in una pisside, da secoli vaso d’argento con coperchio, che nella origine greca della parola richiama il legno di bosso in cui era tornito e quindi il sacro legno della croce di Gesù Cristo. La grande teca, memoria dell’arca dell’Alleanza con le tavole della Legge conservata nel Tabernacolo, la tenda-tempio nel peregrinare di Israele nel deserto durante l’Esodo (immagine del nostro peregrinare verso la Gerusalemme celeste), è conformata come un’urna sepolcrale (donde l’errato appellativo di sepolcro) a ricordare che la resurrezione di Cristo, compimento ed essenza stessa della Legge, passa attraverso la morte.

Reposizione e non ostensione perché più marcata sia la fede nella presenza viva di Cristo che pur non vediamo. Figurazione di un processo di ritorno alla terra che si svolge nella notte, in cui può rifulgere maggiormente la luce della resurrezione dal quel sepolcro scavato nella roccia e richiamo alla notte della natività a Betlemme, quando nella grotta (il soffitto a muqarnas e stalattiti della navata centrale della Cappella la richiama) rifulgeva la luce di Cristo bambino. Questa è la notte in cui, dopo avere lasciato, per l’Umanità intera, Se stesso nell’Eucaristia, tradito e arrestato, Cristo patisce l’abbandono dei discepoli e la sofferenza. Suo è, in questa notte, l’invito alla veglia e alla preghiera. E noi pellegrini, con la visita all’altare della reposizione, esprimiamo il cammino dell’Umanità redenta verso Cristo e la Gerusalemme celeste.

La tradizione popolare che vuole la visita non solo ad una o a due, ma a tre, cinque o sette chiese, è proprio l’espressione, numericamente tradotta, non scevra da valenze mistico-cristologiche, del peregrinare dei “romei” (così erano appellati coloro che andavano a Roma a pregare sulle tombe degli apostoli Pietro e Paolo) verso le tre basiliche patriarcali, di S. Pietro, S. Paolo e della Cattedrale del Laterano, a cui potevano aggiungersi S. Maria Maggiore e S. Croce in Gerusalemme, ed ancora S. Sebastiano e S. Stefano Rotondo.

Sotto il grandioso ciborio che viene a costituirsi tra le quattro colonne (di cui due addossate alla parete occidentale), a modo di grandioso baldacchino parzialmente velato da cortine, secondo un uso in auge fino all’alto Medioevo, è la vera via che conduce alla Gerusalemme celeste: la croce di Cristo, simbolicamente scelta nella variante a bracci uguali alla greca, antichissimo simbolo precristiano di rinascita solare, inscritta entro un cerchio (nelle pareti della Cappella e soprattutto nell’ambone, se ne ha una vasta campionatura) quale segno della cosmogonia cristologica e sintesi mistagogica di Cristo, centro dell’Universo, alfa e omega, principio e fine di tutte le cose. Una raggiera di apicali della comune canna palustre, scettro del Cristo deriso, ci ricorda che Egli è il Re dei re.

Le ventiquattro fiammelle che ardono sulla croce, rivestita d’edera perché speranza di vita eterna e contornata di piccoli crisantemi perché fiori di resurrezione, si riferiscono ai ventiquattro vegliardi dell’Apocalisse di Giovanni che rendono onore al trono divino che per Cristo, il Verbo incarnato, il Dio fatto uomo, è proprio la croce. Al  centro, all’incrocio dei bracci, è il piatto d’argento (metallo dalla valenza lunare) con Orfeo che si trae vittorioso dagl’Inferi, attraendo a se le creature con la sua musica e pertanto considerato, nella mitologia classica, prefigurazione di Cristo. Su ogni quarto della circonferenza che inscrive la croce greca sono dodici fiaccoline la cui valenza numerica è legata alle tribù d’Israele, al fondamento apostolico della Chiesa e alla Gerusalemme celeste che, nell’Apocalisse giovannea, ha dodici porte. La somma di tutte le fiammelle genera settantadue, il numero dei discepoli inviati da Gesù a predicare la Buona Novella.

Le cortine rosse che delimitano l’area, a richiamare il conopeo del tabernacolo eucaristico e i teli della pergula nell’antica basilica vaticana (anche la Cappella è titolata a san Pietro), sono anche lato riferimento al velo del Tempio, il grande drappo che segnava il limite tra la parte destinata ai sacrifici e il Sancta Sanctorum, sede dell’Arca, squarciatosi quando Gesù, rimettendo lo spirito nelle mani del Padre, spirò. Il bianco, colore della pienezza della luce, della festa celeste, di coloro che, nell’Apocalisse di Giovanni, “…hanno lavato le loro vesti rendendole candide col sangue dell’Agnello…”, ha il suo corrispondente nel rosso, utilizzato il Giovedì santo nei riti orientali ed ambrosiano, che esprime la regalità di Cristo, la Sua divinità, l’effusione del sangue e dello spirito. Un grande “tosello” rosso, centrato dall’occhio di Javeh, vi svolge funzione di fondale sovrammesso ad una cortina bianca, in segno di festa, mentre un grande baldacchino in seta bianca, ove campeggia la colomba dello Spirito Santo in una raggiera di luce, lo sovrasta quale rappresentazione del cielo e segno onorifico tributato dalla Chiesa a Cristo re.

Su tutto troneggia, entro la grande cuspide, colorata ad imitazione del porfido- la pietra che esprime la regalità di Cristo re dell’Universo- e che indica tensione mistica, l’arcata ogivale (diversa dalle altre della Cappella), generata da un triangolo perfettamente equilatero, che è richiamo alla Trinità e concettuale segno delle mani giunte in preghiera. All’interno dell’ideale triangolo trinitario la croce gloriosa, di foggia latina, dorata di luce perché segno di Cristo Lux Mundi, filettata di rosso perché colore della Sua divinità, regalità e martirio.

Posto sulla mensa, addobbata con un antependium (o paliotto, derivato dal pallio di origine romana, fascia che, oggi, il vescovo-pastore porta al collo nelle celebrazioni) con il simbolo dell’Agnello mistico sul libro dei sette sigilli (motivo presente pure nella coperta d’argento del sacro testo che è segno tangibile della Parola, del Logos) entro un complesso intreccio di rocaille e fogliame d’acanto in filo d’oro, è il repositorio-urna con incisi i simboli della passione: tunica inconsutile (priva, cioè, di cuciture, segno dell’unità dei cristiani e dell’umanità redenta), dadi, corona di spine, calice, canne, Golgota, croce, lancia, spugna, flagelli, guanto, alabarda, catene, chiodi, martello, lanterna, tenaglia, vessillo, colonna, scala. Sormontato da cuspide crucigera, a memoria del Calvario, è coronato da una coppia di cornucopie, segno dell’abbondanza della Grazia riversata da Cristo. La porticina con apertura a ponte, che ricorda che Cristo è ponte con il Padre, è vegliata da due angeli, immagine della Corte celeste che Lo adora. Poggia su un doppio basamento, di cui uno embricato a ricordare le squame del pesce (nell’acronimo greco ICHTHUS è Iesous Christos Theou Huios Soter- Gesù Cristo Figlio di Dio Salvatore) e l’altro con il monogramma cristologico bernardiniano IHS.

Nell’equivalenza tra mensa sacrificale, dove si compie il mistero del rendimento di grazie dell’ Eucaristia, e la croce, trono di Cristo re dell’Universo e strumento del suo martirio, i simboli della passione divengono simboli eucaristici e poiché “…tutto è stato fatto per mezzo di Lui e senza di Lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste” tutto il creato di Lui discorre e Gli rende onore.

Ornamenti di fiori vivi, segno di vita che si rigenera, ma solo recisi perché gli unici che possono essere posti in prossimità dell’altare ove si celebra l’offerta sacrificale di Cristo morto e risorto,  arbusti e foglie, veri ma anche in effige, sbalzati, incisi, ricamati, che sono continuo richiamo a Cristo e alla Vergine Madre, corredentrice dell’Umanità.

Gigli bianchi (neanche Salomone nella sua grandezza avrebbe mai potuto vestire di tanta bellezza) per la festa che tributiamo al calice virginale di Maria che genera Cristo, artefice della Grazia; rose rosse spinate che alla Deipara, rosa mistica, offrono la passione dolorosa del Figlio e bianche perché è festa per resurrezione del Cristo; garofani, che nascondono tra i petali i chiodi della croce; anturie cuoriformi rosse a segno dell’amore che arde e bianche ad indicare l’unione sponsale di Cristo e della Sua Chiesa, iris che sono annunzio dell’Incarnazione e presagio (per effetto delle sagoma delle foglie) del dolore per la Sua passione e morte; fiordalisi e papaveri che occhieggiano tra le spighe di grano di cui sono compagni e ne richiamano la valenza eucaristica; tulipani che simboleggiano il divino amore. E ancora margherite che nel nome, traducibile in perle, racchiudono la visione della Gerusalemme celeste (le cui dodici porte sono perle) e la memoria del battesimo nascendo, la perla, dalla conchiglia e dall’acqua; crisantemi, fiori della vita  e della resurrezione che per questo portiamo ai nostri defunti; gipsofile, i piccolissimi fiori bianchi che ci ricordano che chi si fa piccolo è grande nel Regno dei Cieli.

E poi edera, segno d’immortalità dell’anima e di vita eterna; acanto, le cui foglie, distaccate dalla pianta, presto muoiono. Ma, pur privata d’ogni foglia, vede il suo fiore che sboccia e puntualmente la pianta risorge; palma, simbolo di gloria, ma anche di martirio perché ai martiri è data la gloria celeste; alloro, segno di vittoria e di trionfo; aspidistria, dalle foglie a forma di lancia come quella che trafisse il Santo Costato facendone sgorgare il sangue e l’acqua nel connubio che lega l’acqua di salvezza del Battesimo al sangue dell’Eucaristia; monstera, il cui nome richiama il prodigio della natura; aralia, che con le foglie a nove terminazioni fa riferimento alla tripla triade, oleandro, l’arbusto venefico dalle cui foglie lanceolate si ricavava un medicamento; la comune canna palustre, scettro del Cristo percosso e deriso e segno della Sua divina regalità. Come ferula era bastone dei pontefici e dei ciantri capitolari; infine, ai lati dei plutei che delimitano il soglio, al di fuori dell’area sacrale, piante con zolla di ficus Benjamin, che ricordano, nel nome, il fico, albero del peccato e quindi della redenzione e nel suo complemento, che vuol dire prediletto, la predilezione del Padre per il Figlio redentore.

I vasi, segno della Grazia che fiorisce dal ventre virginale di Maria, sono addobbati con “frasche” dal vario fogliame, fiorite di numerose e diverse essenze, segno anche della diversità nell’unità della Chiesa. Particolari quelli con l’edera cuoriforme appellata “pampino di Paradiso”. Nel cielo del baldacchino s’arricchiscono di spighe di grano e tralci vitinei, esplicitando il concetto di Grazia riversata attraverso Cristo Eucaristia. Nell’apparato i ricami svolgono l’elogio del creato, in un susseguirsi di girali e meandri, che rappresentano il percorso che il fedele compie per giungere a Cristo.

Le flebili fiammelle di ceri e candele che si consumano sono tributo di luce a Colui che è la Luce vera che mai si spegne; oro e argento, associati al sole e alla luna, sono omaggio al Re dell’Universo. Cinque gradini (cinque è numero legato a Cristo e alle Sue Sante Piaghe, generato da quattro, che è numero di umanità, più uno che è segno dell’assoluto e del divino) conducono all’ara sacrificale, sollevata d’un suppedaneo onorifico in quanto altare-trono, come cinque sono le lampade pensili che ardono innanzi all’altare. Tutte hanno forma a vaso di grazia da cui scaturisce la Luce e due, in particolare, sono baccellate come una zucca, frutto collegato al profeta Giona (uscito vivo dal ventre della balena), indicato come anticipatorio della resurrezione di Cristo.

Tra i piatti votivi uno d’argento, esapartito (sei è numero indicativo del compimento della creazione che in Cristo ha il suo fulcro), umbonato al centro con l’eliotropo, simbolo di Cristo nuovo sole che sorge, è ornato di tulipani a segno dell’amore divino non solo per la sua forma a calice ma per l’enorme prezzo che in antico aveva questo fiore, comunque mai paragonabile a quello pagato da Gesù Cristo per il riscatto dell’Umanità. Un altro, polilobato, reca al centro un motivo stellato a rosa dei venti, segno di Cristo centro dell’Universo.

Giovedì Santo, A.D. MMXV - Palermo, Cappella Palatina, Chiesa Superiore di S. Pietro Apostolo.

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