LA STORIA DELLA CAPPELLA

 

La Sicilia fino al 1061 fu dominata, costituendo un emirato, per due secoli da dinastie arabo-islamiche, provenienti dal Nordafrica. I due fratelli normanni, Ruggero I[1], già Conte di Calabria, e Roberto il Guiscardo, già Duca di Puglia e di Calabria, della famiglia degli Altavilla, maturarono la volontà di conquistare e liberare la Sicilia. Così, nel 1061 sbarcarono a Messina per intraprendere la loro impresa. Tralasciamo le diverse motivazioni storiche che condussero a questa non facile impresa.

Dopo aver conquistato progressivamente l’intera regione, finalmente nel 1071 i due fratelli giunsero alle porte di Palermo e, dopo un non facile battaglia riuscirono ad espugnarla, portando a compimento l’impresa di liberare la Sicilia. Rimasero solo alcune porzioni dell’Isola ancora da affrancare dal rimanente potere arabo, cosa che realizzerà il Gran Conte Ruggero.

La “Contea di Sicilia” esistette formalmente dal 1061, ma ufficialmente fu elevata al grado di “Gran Contea” dal 1071, anno nel quale Ruggero I acquisì il titolo di “Gran Conte”. Ciò fino al 1130, anno nel quale Ruggero II, figlio di Ruggero I nato dal matrimonio con la sua terza moglie Adelaide (o Adelasia) del Vasto, unì la Sicilia al Ducato di Puglia e Calabria creando il “Regno di Sicilia” e, dal papa Anacleto II, ottenne il titolo di “Re” e come tale fu incoronato nel Natale dello stesso anno nella Cattedrale di Palermo.

Guy de Maupassant, scrittore e drammaturgo francese, nel suo viaggio in Italia alla volta del Grand Tour del 1885, definì la Cappella Palatina di Palermo «la più bella chiesa del mondo, il più sorprendente gioiello religioso sognato dal pensiero umano». Le sue parole non sono lontane dal vero. Infatti, ancora oggi è ammirata e visitata annualmente da miglia di visitatori, provenienti da tutto il mondo, per la sua bellezza e la ricchezza dei suoi richiami simbolici dal punto di vista cristiano, religioso ed umano, risultando un’opera emblematica della storia dell’arte e della cultura, frutto del genio normanno, e non solo.

Riprendo dal breve ma pregevole testo di Mons Filippo Pottino sulla Cappella Palatina i seguenti richiami: la Cappella «ha suscitato in ogni tempo ammirazione sconfinata; l’hanno esaltata storici e cronisti coevi: Riccardo da San Germano e Teofane da Cerami; il presunto Ugo Falcando, storiografo dei Normanni, ed Edrisi geografo della corte di Ruggero; ne scrivono entusiasticamente viaggiatori stranieri del sette e ottocento: André Maurel e Augusto Schneegans, che lo definisce “l’opera più perfetta che l’arte cristiana abbia prodotto”; Louis Lepelletier, che in mistica esaltazione annota:  “Quando si entra in mattina di domenica all’ora in cui il prelato in mitra sale sull’altare e quando i ceri accesi e il fumo dell’incenso e la preghiera si elevano, la Cappella dei Re normanni non è soltanto un’opera d’arte incomparabile, ma una commovente e sempre viva espressione della Fede che l’ha creata »; scrittori contemporanei come Anatole France, Ernest Renan, Guy de Maupassant, […]; artisti e poeti contemporanei, fra i quali l’immaginifico dei nostri giorni che indica “Palermo la città della Cappella Palatina”; oltretutto è questa un esemplare modello della casa di Dio, che nella sublimità del mistero piega ed esalta l’anima alla preghiera».[2]

Precedette l’edificazione della Cappella Palatina, una Chiesa, risalente probabilmente al 1117, intitolata inizialmente a “Santa Maria di Gerusalemme” e successivamente a “Santa Maria delle Grazie”, in virtù di un’icone di Maria ivi presente, venerata dal popolo attraverso i secoli. Fu tra il 1129 e 1130 che cominciò l’edificazione della Cappella Palatina per volontà del Re Ruggero II, intitolata a San Pietro, il Principe degli Apostoli, e come atto di ossequio nei confronti del papa, successore di Pietro. La Cappella fu denominata “Palatina”, essendo la Cappella privata del Palazzo del Re. I lavori terminarono nel 1143, anno dell’inaugurazione e consacrazione.

L’intestazione della Cappella a “San Pietro Apostolo” è attestata dalla fascia musiva alla base della cupola, che risulta ormai di difficile lettura a causa dei suoi danneggiamenti e di successivi impropri rimaneggiamenti. Mons. Rocco ne ha offerto questa traduzione, ponendo in evidenza le parti illeggibili: «Altri Sovrani d’un tempo eressero altri luoghi venerandi ai Santi. Io invece, Ruggero Scettropossente, al primo dei discepoli del Signore, all’Arcipastore e Corifeo Pietro, cui Cristo confermò la Chiesa, che Egli stesso acquistò con effusione miranda di sangue, … verso illeggibile … … verso illeggibile … … indizione tre volte … vertendo l’anno – con esatta ragione – cinquantesimo, più ancora la prima unità, essendo corso il sesto migliaio, con il sesto centenario misurati».[3]

A ciò si aggiunga l’importanza che la Cappella rivestiva per il Re, volendo che la sua Cappella fosse elevata a “Parrocchia” e officiata da un adeguato clero. Ciò è testimoniato dalla due pergamene: la prima che attesta l’erezione della Cappella a Parrocchia con “Capitolo” proprio e la seconda che attesta le dotazioni destinate dal Re al suo clero. Le pergamene sono conservate nel Tabulario della Cappella.

Il Re Ruggero con genialità, tenendo conto che in Sicilia insistevano tre gruppi etnici, latino-siculo, greco e arabo, per l’edificazione muraria e architettonica della Cappella si avvalse delle maestranze locali, per lo più latino-sicule, per la realizzazione dei mosaici di maestranze provenienti da Oriente, probabilmente da Bisanzio, e per la realizzazione dei tetti delle maestranze arabe. La Cappella doveva essere, così, il simbolo di quella convivenza pacifica di etnie diverse, permettendo loro di conservare in armonia con le altre la propria cultura, il proprio credo in Dio, le proprie costumanze. L’armoniosa fusione di stili artistici diversi diede vita all’arte siciliana dell’età normanna.

Dal punto di vista architettonico la Cappella risulta essere la fusione di due stili di chiesa: quella bizantina, che insiste nel presbiterio a quattro braccia uguali sormontati dalla cupola; quella latina, la basilica romana a tre navate, spazio liturgico per la partecipazione dei fedeli. Le tre navate sono separate da colonne in granito e marmo cipollino con capitelli compositi, sui quali insistono cinque archi a ogiva per lato. Il presbiterio, recintato e sopraelevato rispetto all’aula ecclesiale, si compone, al centro, di una struttura cubica con la cupola, che richiama le figure geometriche del quadrato e del cerchio tipiche delle chiese bizantine prima e poi anche delle moschee islamiche.[4] Diversamente dalle altre chiese basilicali è opinione prevalente che la Cappella, al lato nord, non avesse alcuna porta d’ingresso, risultando tutta la parte una struttura muraria continua a cui fu destinata una tribuna centrale su cui porre un seggio regale per il sovrano. Vi è diversa opinione sull’attuale struttura della tribuna, relativamente al suo tempo di costruzione e alla sua confezione finale, ma a tal riguardo afferma Kitzinger: «Con un trono reale come elemento focale la navata possedeva il suo proprio centro di gravità che controbilanciava quello costituito dall’altare, all’estremità orientale del santuario. La navata era concepita come una sorta di sala del trono».[5]

 

                                                        Testo in ulteriore aggiornamento... 

 

 

 

[1] Ruggero nacque a Hauteville- la-Guichard nel 1031 circa e morì a Mileto il 22 giugno 1101, ultimogenito di Tancredi. Goffredo Malaterra, monaco benedettino di origine normanna nella sua opera De rebus gestis Rogerii Calabriae et Siciliae comitis et Roberti Guiscardi ducis fratris eius, una cronaca sull’origine dei Normanni in Italia ebbe a scrivere di Ruggero, da lui personalmente conosciuto: «Era un giovane assai bello, di alta statura e di proporzioni eleganti, pronto di parola, saggio nel consiglio, lungimirante nel trattare gli affari. Conservò sempre il carattere amichevole e allegro. Era inoltre dotato di grande forza fisica e di gran coraggio nei combattimenti. E in virtù di questi pregi, si guadagnò in breve il favore di tutti».

[2] Filippo Pottino, La Cappella Palatina di Palermo, Ristampa anastatica a cura dell’Accademia Nazionale di Lettere e Arti di Palermo, Ristampa S.T.ASS., Palermo1993, 10.

[3] Specifica nel suo testo Mons. Rocco: «L’anno dell’era bizantina, che si ricava dal testo citato, 6651 dalla creazione del mondo, corrisponde al nostro 1143 dall’Incarnazione di Cristo. L’indizione, non completamente leggibile a causa dei guasti musivi (“… indizione tre volte …”) è certamente la “sesta”: Mons. Benedetto Rocco, La Cappella Palatina di Palermo, a cura della Accademia Nazionale di Scienze e Arti di Palermo, Arti Grafiche Siciliane, Palermo 1993, 7.

[4] A riguardo una interpretazione critica ci viene offerta da Mons. Rocco nel suo pregevole scritto sulla Cappella. Asseriva: «La Cappella sorge in un momento di grande creatività, in cui operarono insieme artisti di origine e sensibilità diversa. Il risultato fu un capolavoro; ma – a nostro giudizio – non di ordine architettonico. L’accostamento di una pianta greca a una pianta latina non diede una soluzione compiuta; disturba soprattutto la cupola, che è a suo posto alla Martorana, ma non alla Palatina. A Monreale si avrà la compiutezza architettonica, si avrà cioè la fusione delle due piante: ma sarà necessariamente sacrificata la cupola. E, sacrificata la cupola, prenderà un altro orientamento tutta la decorazione musiva della cupola, stemperata in un tessuto diverso. Dimodoché con la sua incompiutezza la Palatina sta a documentare il lungo travaglio degli artisti a Palermo nel XII secoli; i quali, nel rispetto di ogni valore acquisito, tentarono conciliare il verticalismo orientale con l’orizzontalismo occidentale. Lo scopo di dare ai greci e ai latini una sede unica per lo svolgimento della liturgia è certamente raggiunto, anche se la sede in realtà è più adatta ai greci che ai latini». Come si evince dal testo di Mons. Rocco, ma l’affermazione è universalmente condivisa, la Cappella, per più di un secolo sarà diversamente utilizzata dai due riti, quello bizantino e quello latino, e ciò fino a quando insisteranno nel territorio comunità di matrice bizantina. La separazione tra il presbiterio e la basilica, per lo svolgimento dell’azione liturgica “invisibile” ai fedeli, sarà offerta non da una vera e propria iconostasi «sponde di marmo dell’altezza di m. 1,82, con rivestimenti di porfido e di fasce musive», che poi saranno eliminate con la fine del rito bizantino. Mons. Benedetto Rocco, La Cappella Palatina di Palermo, 11.13.

[5] Ernst Kitzinger, Il corpus dei mosaici del periodo normanno in Sicilia. Le introduzioni 1992-2000, a cura di Paolo Cesaretti, Istituto Siciliano di Studi Bizantini e Neoellenici, Palermo 2023, 31-32.